Manna o veleno?

A quanto pare, soffiano venti di cambiamento nella gestione economica della crisi pandemica, quantomeno se comparata a quella della Grande Recessione: almeno questo è quello che dicono tutti. Gli Stati membri dell’UE il 23 marzo hanno sospeso il Patto di stabilità e crescita (PSC), con la totale unanimità degli esperti economici, da quello che si legge su qualsiasi media, per la necessità di aumentare il deficit contro la crisi. La Merkel si è rimangiata il suo “non ci saranno eurobond finché vivo” ed ora l’emissione di debito pubblico è un dato di fatto. Allo stesso tempo, gli obiettivi strategici proposti dallo strumento di recupero temporaneo di 750.000 milioni di euro denominato Next Generation UE (abbreviato in Europa NGEU, su cui questo articolo si concentrerà) sembrano adeguarsi a qualsiasi spirito progressista, secondo quanto afferma la stessa Commissione Europea. Aiuterà a riparare “i danni economici e sociali causati dalla pandemia di coronavirus” dopodiché “l’Europa sarà più verde, più digitale, più resiliente e più adatta alle sfide attuali e future”. Quindi, nonostante il fatto che la crisi pandemica si è tradotta con la perdita di 495 milioni di posti di lavoro secondo l’OIL, l’Europa si trova ad affrontare il futuro con un apparente cambio di rotta dall’ortodossia economica.

Nonostante il fatto che il 99,7% delle quasi 68.000 aziende distrutte durante l’anno finanziario 2020 nello Stato spagnolo impieghi meno di 50 lavoratori, si prevede che la manna della BCE arrivi in tempo a salvare la situazione. La sinistra politica e sindacale applaude “la fine dell’austerità”. Le grandi centrali sindacali, intossicate da decenni dal discorso sulla competitività, condividono ad occhi chiusi – mano nella mano con i padroni – la “nuova” dottrina della Commissione Europea e chiedono al Governo di concentrare i fondi europei, tra le altre cose, sulla riconversione digitale, la lotta al cambiamento climatico e la formazione digitale. Tutto è nuovo e tutto deve essere fatto.

Uhmm… sicuro? Tutto ciò accade, ovviamente, in apparenza. Ciò non significa che non stiano cambiando le cose; va ricordato che le apparenze nel capitalismo non sono il prodotto di una falsa coscienza ma piuttosto un’efficace inversione della realtà: le categorie con cui il volgare economista analizza la realtà: “non costituiscono deliri infondati o eventuali errori di conoscenza, ma piuttosto colgono il carattere reificato, capovolto, distorto dell’esistenza reale di questi rapporti di produzione.[1] “Pertanto, la conoscenza come scienza sarebbe superflua “se la forma apparente e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente”,[2] e il problema dell’economista borghese è sempre che “il suo cervello limitato non è in grado di separare la forma dell’apparenza”.[3] Sarebbe però assurdo sostenere che nulla è cambiato e ovviamente sarebbe conveniente capire che il modo in cui le élites europee hanno affrontato la crisi attuale è diverso da quello precedente.

Alcuni autori sostengono che le ripercussioni della pandemia COVID-19 interrompono irreversibilmente il rapporto capitale-lavoro salariato, il che ci pone di fronte a un doppio scenario: l’inizio di una fase post-neoliberale di sviluppo capitalista o la genesi di un processo di transizione verso un altro regime dell’organizzazione sociale.[4] Vale a dire, stanno cambiando le cose. È però essenziale guardare oltre le apparenze per interpretare ciò che il futuro può riservare. Cos’è che appare oggi nella forma apparentemente reale di quello che alcuni hanno chiamato il “nuovo piano Marshall” per l’Europa? È una manna o un regalo avvelenato?

Per quanto possiamo affinare le analisi, le offerte dell’UE dovrebbero essere accolte come Virgilio nella famosa frase dell’Eneide, quando affermava di aver paura dei greci persino quando elargiscono doni. Siamo di fronte al più grande salvataggio di capitali nella storia del continente; gran parte della sinistra è fiduciosa e spera che anche un po’ di preziosa manna cada su di lei. Gli interessi avanzati dalle élites economiche e finanziarie sono quasi inarrestabili e poche organizzazioni rilevanti (ci sono eccezioni lodevoli) stanno mettendo in dubbio la strategia e stanno pensando a come affrontare la prossima ristrutturazione capitalista. Una dinamica accentuata dai tempi brevi di gestione dei fondi e dai vincoli alla riflessione ed al dibattito imposti dall’isolamento sociale che subiamo. Quindi è necessaria una critica generale del piano europeo ma, nel caso qualcuno sia impaziente di sapere chi è l’assassino prima di arrivare alla fine, anticipiamo brevemente le conclusioni:

  1. Il pacchetto di aiuti NGEU non servirà a salvare la grande maggioranza dei settori economici duramente colpiti dalla crisi, né lo sarà il settore dell’economia sociale. I fondi dell’NGEU possono sembrare enormi ma a causa delle loro dimensioni, della loro direzionalità e del loro tempismo sono del tutto insufficienti per fermare l’emorragia economica che stiamo subendo.

  2. Nonostante l’eterodossia che implica la sospensione temporanea del patto di stabilità della PEC e delle regole di concorrenza, l’NGEU non implica una modifica rilevante della politica economica ortodossa e l’accoglienza che i governi le stanno dando è ancora più prudente e convenzionale di quello imposto da Bruxelles. Pertanto, il pacchetto Next Generation non arriverà in cambio di nulla ma con una forte condizionalità (sostenere la riforma del lavoro del PI, tagliare il sistema pensionistico…) e una delle istituzioni più potenti d’Europa (la Bundesbank) ha già affermato che anche i trasferimenti diretti dovrebbero sottostare ai criteri di Maastricht.

  3. Digitalizzazione e innovazione, sempre sacralizzate e fraintese dall’ortodossia economica (a) dal punto di vista della logica del valore d’uso – non porteranno più benessere alla popolazione ed accentueranno un sistema di sfruttamento estrattivista delle risorse naturali del tutto incompatibile con la presunta transizione verde che pretende di perseguire e (b) dal punto di vista della logica del valore (spiegheremo cosa significa più avanti, ora non c’è da preoccuparsi) – accentueranno solo il processo di contrazione generale della redditività di un capitalismo non perché strettamente stagnante ma, invece, perché troppo produttivo. L’NGEU è la conclusione dell’ennesimo tentativo di riattivazione economica dei profitti capitalistici dalla privatizzazione di un’enorme quantità di risorse pubbliche. Un capitalismo di partnership pubblico-privato che ricorda il corporativismo fascista.

  4. Il Green New Deal e l’NGEU così come si concretizzano in Europa si basano su un mito: quello della dematerializzazione o del disaccoppiamento, secondo il quale l’economia può continuare a crescere e, contemporaneamente, ridurre i consumi energetici e gli impatti ambientali di produzione. Un mito, come vedremo, tecno-ottimista inebriato di efficienza e innovazione. Quello che segue è un primo articolo – del tutto insufficiente – con il quale cercherò di sviluppare queste quattro idee-chiave. Cercherò di farlo con intento divulgativo, cercando di non abusare del linguaggio oscuro e criptico che molti economisti – anche attivisti – usano spesso per sembrare più intelligenti di quanto non siano in realtà. Andiamo!

Cos’è il Next Generation EU?

Cominciamo con alcuni dati grezzi. L’NGEU è un fondo temporaneo, che si aggiunge al bilancio pluriennale dell’Unione europea (UE) per il periodo 2021-2027. Contrariamente al bilancio regolare, che è finanziato dai contributi degli Stati membri e da alcune tasse comuni, l’NGEU sarà finanziato mediante l’emissione di debito sui mercati da parte della Commissione europea (CE). Per intenderci: l’emissione di debito è una forma di finanziamento che consiste nell’emissione di titoli finanziari come promessa di pagamento futuro a un determinato prezzo. In parole povere: consiste nel prendere in prestito denaro da grandi fondi di capitale – principalmente banche – in cambio di alcuni pezzi di carta (titoli finanziari) impegnandoti a restituirlo.

Apriamo qui una prima parentesi. La prima cosa da capire è che, in effetti, si tratta di una novità rispetto a quanto accaduto finora. L’emissione del debito è per la prima volta mutualizzata: avviene congiuntamente nell’ambito dell’Unione Europea e non solo dei singoli Stati. Tutto ciò si può interpretare come un passo verso una maggiore integrazione fiscale dell’UE e allo stesso tempo come un’eventuale perdita di sovranità degli Stati. In ogni caso, la mutualizzazione del debito dell’NGEU non implicherà una modifica sostanziale della capacità di indebitamento dello Stato spagnolo, che se oggi è molto alta (è consentito anche di farlo con interesse negativo) è perché è stata la BCE a spendere miliardi nel mercato del debito secondario: solo nel 2020, la BCE ha acquistato 120.000 milioni di debito spagnolo, l’equivalente dell’emissione netta del paese nell’anno in questione

Continuiamo con i dati. L’importo massimo che l’NGEU può emettere sarà di 750.000 milioni di euro, tra il 2021 e il 2026. Per la Spagna, nei prossimi cinque anni, il numero di investimenti da erogare potrebbe superare il 3% del PIL annuo, ovvero 140.000 milioni di euro . Il dato può sembrare stratosferico ma non tanto se confrontato con il calo del PIL post-pandemia e se si tiene conto che i fondi saranno erogati solo se verranno presentati determinati progetti, cosa di cui tutti ammettono la poca chiarezza. Non è nemmeno eccessivo se pensiamo che, alla fine del 2020, la Bce aveva già 465.000 milioni di euro in obbligazioni solo del debito pubblico spagnolo. In ogni caso, il 42% dei fondi totali sarà effettuato tramite trasferimenti diretti agli Stati membri, il 10% sarà destinato a programmi paneuropei ed il restante 48% dovrebbe essere concesso tramite prestiti bilaterali. Il debito emesso dalla CE nell’ambito di questo fondo sarà pagato dal 2028 al 2058; Per restituirlo è prevista la possibilità di dotare la Commissione Europea di nuove risorse proprie (attraverso, ad esempio, nuovi provvedimenti fiscali in ambito digitale e ambientale).

Seconda parentesi. Molta enfasi viene posta sul fatto che la metà dei fondi, nel caso spagnolo, arriverà in forma di trasferimenti diretti e non genererà deficit ma la cosa non è poi così chiara: nel loro ultimo rapporto mensile, la Bundesbank ha lanciato l’idea di applicare i terribili parametri di Maastricht su debito e disavanzo anche alle risorse europee da distribuire agli Stati membri tramite l’NGEU. Che vuol dire? Condizionalità ovunque: dopo l’arrivo dei fondi, sotto forma di risanamento (tagli) fiscale – ancora indeterminato – viene revocata la sospensione della PEC. Condizionalità anche prima che arrivino i fondi, poiché per ottenerli gli Stati membri sono obbligati a presentare “piani di recupero e resilienza” che devono aderire alle raccomandazioni specifiche che la CE prepara per ogni paese nell’ambito del semestre europeo. Implicazioni nel caso spagnolo? Per lo meno, tra le altre imposizioni c’è quella di non invertire la riforma del lavoro del PI ed apportare tagli al sistema pensionistico. Siamo di fronte a una ripetizione di uno scenario stile Syriza, con la differenza che, invece di avere una sinistra politica ad affrontare questo processo, abbiamo aderito ad una falsa visione di una Europa compassionevole senza capire assolutamente nulla della posta in gioco, inebriati da un presunto cambio di rotta economica dall’ortodossia precedente che, per il momento, non si vede da nessuna parte.

Come ha spiegato molto bene Alfonso Pérez, l’NGEU deve essere inteso come un secondo round di aiuti che mira più a trasformare la struttura produttiva che a fermare il drenaggio economico in corso. Questo round arriva dopo quella che è stata una prima fase di salvataggio intensivo che la BCE ha canalizzato attraverso il suo programma di acquisto di emergenza pandemica (PEPP); osservare chi ne beneficerà, in particolare, nella prima fase di salvataggio (da marzo a luglio 2020) potrebbe darci indizi su chi potrebbero essere i destinatari di questa seconda fase. Per quanto riguarda il programma di acquisto di obbligazioni societarie, sono stati effettuati 256 acquisti solo da marzo a luglio 2020 per 139 aziende, tra le quali troviamo, nel caso spagnolo, Iberdrola, CEPSA, ACS, Telefónica, Repsol, Ferrovial o la Merlin Properties Socimi. Nel caso in cui ciò non sia sufficientemente indicativo dell’orientamento della seconda fase di aiuto attraverso l’NGEU, uno sguardo al regio decreto legge 36/2020 approvato alla fine dello scorso dicembre è finalmente chiarificante. Come hanno analizzato sulla rivista El Salto, il decreto coincide in gran parte con la proposta di contenuto avanzata dal datore di lavoro CEOE, preparata dagli avvocati di Cuatrecasas, Garrigues, Uría-Menéndez e PwC. Sono i rappresentanti delle grandi aziende che hanno posto le basi per la distribuzione dei fondi.

Un nuovo Piano Marshall per l’Europa?

Discutere l’ipotesi di trovarci di fronte a un nuovo Piano Marshall è interessante in termini didattici. È vero che i grandi gruppi imprenditoriali ne sono stati anche i grandi beneficiari e che, durante la sua attuazione, l’Europa ha vissuto il periodo di massimo boom economico della sua storia, con tassi di crescita del 5% in media all’anno. Dal 1948 al 1952, infatti, la produzione industriale è aumentata del 35% e la produzione agricola ha superato di gran lunga i livelli prebellici, ciò è stato però reso possibile soprattutto dalla generale distruzione di valore dovuta alla seconda guerra mondiale. L’Europa dei cosiddetti “gloriosi trenta” fu il prodotto della massiccia distruzione di capitali avvenuta durante la guerra.

D’altra parte, il benessere che ha accompagnato questa crescita nel continente è stato il risultato di un patto sociale redistributivo del dopoguerra in un periodo di fiorenti sindacati e partiti comunisti e di forti pressioni da parte dell’economia sovietica. Questo patto si tradusse in una forte regolamentazione di ciò che Karl Polanyi definiva “i tre beni fittizi”, a causa della distruzione economica, sociale e antropologica che la loro mercificazione implicava: lavoro, denaro e terra. Il collegamento fra capitale finanziario e del gruppo dei rentiers ed una forte regolamentazione del mercato del lavoro, incarnato nelle contrattazioni collettive e nel riconoscimento dei sindacati come principali interlocutori nel monopolio della contrattazione sulla forza lavoro, sono stati fondamentali nella distribuzione dei frutti della crescita del dopoguerra. Tre fenomeni molto più importanti dei contributi monetari degli yankee attraverso il Piano Marshall. C’è davvero la voglia di immaginare molti possibili orizzonti per tracciare un parallelo tra il mondo economico, istituzionale e politico di allora e di oggi.

Una corsa per aumentare la produttività… Ma quale produttività?

Si è detto che la crisi economica del Covid-19 è di tipo esogeno, uno shock esterno e che, con il vaccino e la ripartenza economica stimolata da questo salvataggio milionario, è credibile aspettarsi una rapida ripresa economica con un grafico a forma di V. Certo, ci viene anche detto che, affinché ciò avvenga, è necessario che gli investimenti siano indirizzati verso settori che possano sostenere la cosiddetta rivoluzione 4.0, in aggiunta ad un’ondata di digitalizzazione imposta economicamente in modo acritico e indiscutibile. Più avanti ci occuperemo del capitalismo verde, l’altra grande scommessa strategica dopo l’NGEU, prima però soffermiamoci a scoprire cosa c’è dietro tutta questa rivoluzione tecno-scientifica materializzata nei fondi delle NGEU. I suoi promotori si fidano per davvero di questo riorientamento strategico che dovrebbe aprire verso un periodo di crescita e benessere? Possiamo fidarci?

Se vogliamo capire cosa giustifica la spinta all’intensificazione della digitalizzazione capitalista, dobbiamo parlare di produttività, quindi è conveniente anticipare questo concetto arricchendolo con le lenti dell’economia politica marxista: non è la stessa cosa parlare di produttività nella produzione di valori d’uso o di produttività nella produzione di valore. È importante insistere su questa principale contraddizione del sistema economico. Il capitalismo può essere – ed è sempre di più – iperproduttivo nella produzione di valori d’uso (beni e servizi) e, allo stesso tempo, essere stagnante nella produzione di valore (e quindi profitto). Quale produttività preoccupa gli economisti tradizionali, gli investitori e la BCE? La produttività nella produzione di valore.

Lo spiego perché sembrerà contraddittorio a qualsiasi persona ragionevole il fatto che, in un mondo sempre più produttivo – nel regno del buon senso, quello dei valori d’uso – dunque malato di sovrapproduzione, gli economisti continuano a diagnosticare problemi di produttività generale che dovrebbero essere risolti con ulteriore sviluppo tecno-scientifico, robotizzazione e digitalizzazione. Come spesso accade, qualsiasi persona ragionevole spesso ha più ragione della maggior parte degli economisti. Il capitale come relazione sociale è relativamente indifferente al campo dei valori d’uso (fintanto che c’è una domanda effettiva per consumarli) ma ha bisogno di rivoluzionare costantemente il campo della produttività nella produzione di valore (di scambio) perché non cerca di produrre cose ma piuttosto profitto. In parole povere: all’investitore non frega niente se investe in obbligazioni, burro o cannoni; quello che vuole è il profitto. In altre parole ancora: in un sistema mercantile capitalista, un aumento della produttività materiale, che consente una maggiore produzione di valori d’uso, assume la forma sociale specifica di una produzione limitata di plusvalore, cioè di profitto. I problemi di ritorno sugli investimenti non sono dovuti al fatto che il lavoro non è produttivo ma perché lo è troppo! In questo modo appare capovolta ed assurda la realtà che ci proponiamo di trasformare.

Nel capitalismo questa logica ineluttabilmente produttivista diventa una imposizione, dovrebbe però essere ormai chiaro che l’impegno per la digitalizzazione e la rivoluzione costante delle forze produttive sarebbe stupido in un mondo razionale. Per lo meno, sarebbe in discussione. Sarebbe opportuno discutere, ad esempio, che senso ha utilizzare i fondi delle NGEU per robotizzare l’assistenza agli anziani o per digitalizzare l’istruzione? Solo una scimmia da fiera – o un homo oeconomicus amorale come sembra essere il 95% degli economisti – potrebbe pensare che le sfide nel mondo dell’assistenza domiciliare o dell’istruzione possano essere risolte robotizzando e digitalizzando ancora di più. Le persone hanno bisogno di affetto e di relazioni sociali di qualità, non di robot. Comunque sia, questo è il percorso che il capitalismo persegue oggi ed è una delle scommesse strategiche dell’NGEU, con l’obiettivo di uscire dalla stagnazione dalla sola produttività che conta per loro e che ha per decenni segnato valori bassi. Nemmeno l’obiettivo di recuperare percorsi di crescita e profitto aumentando la produttività attraverso il processo di digitalizzazione e robotizzazione sembra però funzionare.

Artous mostra che “la sostituzione del capitale con il lavoro dovrebbe portare ad un’accelerazione della produttività del lavoro, invece, al contrario, sta rallentando”.[5] Lo stesso autore trova una delle chiavi interpretative nel cosiddetto paradosso di Solow che spiega il fenomeno: “Le aziende non hanno investito abbastanza per compensare l’accelerazione dell’obsolescenza del capitale, il che spiega il calo di produttività”. Come dice Husson in un articolo magistrale, è necessario investire molto e spesso lo stesso volume di investimenti comporta una diminuzione della produttività: “il flusso delle innovazioni tecnologiche non sembra esaurirsi ma quello che sta per esaurirsi è la capacità del capitalismo di inserirli nella loro logica”. Usando i termini del nemico, si potrebbe dire che c’è una produttività marginale decrescente della robotizzazione. Nel mondo reale delle classi popolari quali saranno le conseguenze di questa corsa sfrenata alla digitalizzazione nello scenario pandemico in cui viviamo? Quelle ecologiche le vedremo dopo ma quelle economiche possono essere devastanti. In primo luogo, in termini di distruzione di posti di lavoro: secondo un recente studio, 5,4 milioni di posti di lavoro – solo nel commercio – sarebbero minacciati in Europa dall’azione combinata Covid-19 e robotizzazione.[6] L’incertezza sull’effettiva disponibilità della forza lavoro dovuta alle limitazioni alla mobilità e la tendenza stessa ad aumentare la produttività accelerano l’andamento dei processi di digitalizzazione, sebbene l’incertezza generale imposta dalla pandemia limiti gli investimenti per attuarla.

In secondo luogo, una maggiore digitalizzazione si traduce anche in monopolizzazione e concentrazione delle imprese: un aumento della produttività del lavoro in quei settori che riescono ad automatizzare e accaparrarsi profitti eccezionali lascia il posto a una maggiore concentrazione e centralizzazione del capitale. Come scrive Marx, la caduta del saggio di profitto e l’accelerazione dell’accumulazione “sono solo espressioni diverse dello stesso processo nella misura in cui entrambe si esprimono nello sviluppo della forza produttiva”.[7] L’NGEU è un grande stimolo pubblico che permetterà alle grandi compagnie petrolifere, ad esempio, di diventare finalmente proprietarie di tutte le fonti energetiche attuali o, alle grandi case automobilistiche, di disporre di fondi sufficienti per trovare la soluzione tecnica ai loro problemi di sovrapproduzione e adattamento al picco del petrolio. Una maggiore concentrazione delle imprese implica però la distruzione del tessuto produttivo delle piccole imprese (quello catalano è frammentato in 627.000 aziende, di cui meno di 34.000 hanno più di 10 persone che lavorano) ed un maggiore orientamento all’export, il che implica di trascurare le esigenze endogene territoriali, nella misura in cui la capacità di consumo interna è atrofizzata a causa di una popolazione disoccupata e con potere d’acquisto in diminuzione, che di conseguenza costringe le aziende ad esportare.

Terzo, senza approfondire più di tanto in questa sede, la digitalizzazione apre la porta a processi ancora più profondi di finanziarizzazione della vita quotidiana e può spronare il progetto del Mercato Unico dei Capitali: un progetto politico su larga scala per rafforzare ed integrare ulteriormente il mercato basato sulla finanza. È un’iniziativa della Commissione europea sotto la guida di Jean-Claude Juncker, che si sforza di rendere il sistema finanziario in grado di assorbire ancora più risparmi dai cittadini e svolgere un ruolo più importante nella finanza aziendale, dove la posta in gioco è governare i mercati finanziari. Se il business del mercato dei capitali è interessato a far si che anche una piccola azienda possa vendere azioni con un clic sul telefonino, la digitalizzazione così come viene considerata dall’NGEU diventa una strategia indispensabile. Con il Green New Deal del NGEU, si intende – nel quadro di un capitalismo altamente competitivo – avviare un percorso verso la sostenibilità ecologica, con ingente sostegno da parte del settore pubblico e con il settore privato come grande alleato. È il consolidamento definitivo e su larga scala dei partenariati pubblico-privato (PPP): l’uso dei PPP si è diffuso come una forma di privatizzazione mascherata, con l’obiettivo di riequilibrare i bilanci nascondendo il debito.

Di là della funesta forma di gestione del PPP, la grande contraddizione insormontabile che deve affrontare il Green New Deal è però fisica: non ci sono risorse materiali per effettuare la transizione verde ed è impossibile separare la crescita verde dal consumo di materia ed energia e l’emissione di rifiuti. Un programma “verde” che non contempli il processo di decarbonizzazione dell’economia stabilendo rapporti economici su filiere corte, basati su potenti programmi di pianificazione economica volti a garantire la copertura dei bisogni della maggioranza della popolazione, non è altro che propaganda ed “estrattivismo verde”. Inoltre, alcuni autori sostengono che una transizione ecologica dalla logica tecnofila descritta nella sezione precedente è impossibile. La convinzione che ciò sia possibile si basa su un’ideologia che sta seminando il caos nella nostra epoca: quella del tecno-ottimismo. Questa ideologia – che si insinua dappertutto, dai programmi televisivi inguardabili all’analisi economica ortodossa – sostiene che la scienza e la tecnologia saranno in grado di risolvere qualsiasi problema esistente o futuro. Come però sottolineano Ecologists in Action, “il sistema tecno-scientifico ha dei limiti: il primo è che ciò che era ‘facile’ da inventare è già stato inventato. Le scoperte attuali richiedono investimenti temporanei, materiali, energetici, economici e umani sempre maggiori. Pertanto, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, il ritmo delle vere innovazioni sta diminuendo”. Inoltre, “un secondo problema è che la tecnologia può essere definita come conoscenza, materia ed energia intrinsecamente collegate. In altre parole tre fattori limitati. Quindi, limitate sono le capacità del sistema tecnoscientifico. Come se non bastasse, “ciò che ci si aspetta non è che ci sia un progresso generico ma che sia diretto esattamente verso ciò che serve al momento opportuno (fonti energetiche che sostituiscano i combustibili fossili o soluzioni ai cambiamenti climatici) e che sia attuato può allo stesso tempo in tutto il mondo”.

Conclusioni

Una certa sinistra disorientata vuole sognare oggi la quadratura del cerchio: aprire un periodo di crescita economica, come quella successiva al 1945, senza però nessuno dei fattori che lo hanno reso possibile, in un’economia in sovrapproduzione in termini di valori d’uso e in enorme difficoltà nel generare redditività per i capitalisti e perseguire guadagni di produttività attraverso un processo di digitalizzazione che non può offrir nulla. Al contrario, ciò che si preannuncia è una maggiore concentrazione delle imprese – quindi, ancora più potere politico nelle mani delle élites aziendali e finanziarie – più disoccupazione e precarietà del lavoro, una finanziarizzazione ancora più profonda delle nostre vite e fin nei recessi microeconomici più profondi, l’aggravarsi dell’emergenza climatica a seguito di uno sfruttamento ecologico inseparabile dal capitalismo verde, e un’austerità più che certa al rinnovo del Piano di Stabilità e Crescita, che può essere particolarmente devastante nel caso dello Stato spagnolo.

Purtroppo la sinistra non ha la forza di imporre un’agenda di investimenti alternativa e dovrà accontentarsi delle briciole consociative delle varie cooperative, incrociando le dita sperando che sui campi piova caffè. Il capitalismo oggi vive immerso in una crisi molto complessa: ai problemi di sovrapproduzione antecedenti alla pandemia si aggiungono ora i vari shock della domanda e dell’offerta, la rottura delle catene del valore e gravi fratture metaboliche, come la crisi energetica e climatica, che generano un boom migratorio destinato ad aumentare. La riorganizzazione economica globale si è basata, nell’ultimo decennio, su un modello caratterizzato da elevata disuguaglianza sociale, smantellamento del settore pubblico, privatizzazioni e tassazione regressiva. Siamo di fronte a questa enorme complessità e serie di problemi, dove il programma NGEU incoraggia solo le contraddizioni e non ne risolve nessuna; oltretutto speriamo, illudendoci, che arrivi quello che sarà un veleno. È davvero esasperante.

Paul Llonch

[Traduzione di Flavio Figliuolo]

NOTE

  1. La teoría de la apariencia en Marx y sus raíces kantianas. Clara Ramas San Miguel. Araucaria. Revista Iberoamericana de Filosofía, Política, Humanidades y Relaciones Internacionales, año 22, nº 43. Primer semestre de 2020. Pp. 169-195. ISSN 1575-6823 e-ISSN 2340-2199 https://dx.doi.org/10.12795/araucaria.2020.i43.08

  2. Marx, K., Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie. Tercer Volumen: Der Gesamtprozess der kapitalistischen Produktion, Marx-Engels Werke, Berlín. Del Instituto para el marxismo-leninismo del Comité Central de la SED, 1956 ff., Bd. 25, p. 825.

  3. ibid. pag 894.

  4. Foladori, Guillermo & Delgado Wise, Raúl. (2020). Para comprender el impacto disruptivo de la COVID-19, un análisis desde la crítica de la economía política. Migración y Desarrollo. 18. 139-156. https://doi.org/10.35533/myd.1834.gf.rdw

  5. Artus, Patrick (2020) “Sur le ralentissement de la productivité”, 25 de septiembre y 1 de octubre; disponible en http://reparti.free.fr/artus10-2.pdf

  6. Del Río-Chanona, R. Maria et al. (2020) “Supply and demand shocks in the COVID-19 pandemic: an industry and occupation perspective”, Oxford Review of Economic Policy, Vol. 36, Sup. 1; disponible en http://reparti.free.fr/rio-chanona20.pdf

  7. Elementos fundamentales para la crítica de la economía política (Grundrisse) 1857-1858. 8 ed. México: Siglo XXI, 1980). Volumen VI, pág. 309

Related posts